Epopea di Gilgamesh

Da Ufopedia.

Gilgamesh, Re di Uruk
« Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo;
di colui che apprese e che fu saggio in tutte le cose.
 »

Incipit dell'Epopea di Gilgamesh

L'Epopea di Gilgamesh è un poema epico sumerico, scritto in caratteri cuneiformi su tavolette d'argilla che risale a circa 4500 anni fa. L'Epopea di Gilgamesh, raccoglie tutti quegli scritti che hanno come oggetto le imprese del mitico re di Uruk ed è da considerarsi il più importante dei testi mitologici babilonesi e assiri pervenuti fino a noi.

Di quest'opera noi possediamo, oltre all'edizione principale allestita per la biblioteca del re Assurbanipal - ora conservata nel British Museum di Londra, – altre versioni più antiche e maggiormente frammentarie. Tutti i popoli che sono venuti a contatto con il mondo sumerico hanno avvertito la grandezza dell'ispirazione, tanto è vero che tavolette cuneiformi con il testo di Gilgameš sono state trovate in Anatolia, scritte in ittita e hurrita, e in Siria-Palestina. I testi più antichi che trattano le avventure dell'eroe (pervenutici in condizioni frammentarie) appartengono alla letteratura sumerica e anche scene dell'epopea si ritrovano, oltre che su vari bassorilievi, su sigilli cilindrici del III millennio a.C.

Indice

Narrazione

La narrazione prende nome dal protagonista, Gilgamesh, il re sumero di Uruk (Erech nella Bibbia, attualmente Tell-al-Warka in Iraq), l'eroe che con il compagno Enkidu affronta avventure di ogni genere, alla ricerca del segreto dell'immortalità.

Nel poema compaiono molte affinità con i testi biblici e con l'epica classica; si pensa che alcuni temi fossero largamente diffusi nel mondo antico, e che la loro attestazione testimoni rapporti culturali fra i popoli, altrimenti non documentati.

Trama

Gilgamesh è il re sumero della città di Uruk. Guerriero e crudele, è per due terzi divino e per un terzo mortale e tiene sotto il suo dominio un popolo sempre più stanco delle sue prepotenze e ingiustizie. Gli dei, dunque, per punirlo, decidono di mandargli contro Enkidu, un uomo primitivo e rozzo, creato dall' argilla e descritto nell' epopea come selvaggio sia nel fisico che nei comportamenti. I due si scontrano, come previsto, ma lo scontro finisce alla pari. Colpito dalla Forza di Enkidu, Gilgamesh stringe con lui un patto d'amicizia. Decidono di andare insieme alla Foresta dei Cedri per prelevare il prezioso legno di questi alberi. Alla guardia della Foresta c'è però un mostro, che i due riescono a sconfiggere senza grossi problemi. Accresciuta ulteriormente la sua fama e l'amicizia con Enkidu, Gilgamesh viene corteggiato da Ishtar (la dea della bellezza e della fecondità, ma anche della guerra e della distruzione), che lo vorrebbe come sposo, estasiata dalle sue doti di guerriero e dalla sua fama. Gilgamesh però la rifiuta, visto il triste destino degli amanti della dea, e Ishtar, con l'aiuto di Anu (il dio del Cielo e padre di Ishtar stessa) invia contro i due amici un ferocissimo toro divino di colore blu. Nel combattimento che ne consegue, Enkidu blocca il selvaggio animale e Gilgamesh gli infila la spada tra le corna, uccidendolo. Oltraggiata ancora di più, Ishtar fa morire Enkidu con una brutale malattia, che gli fa patire una morte lenta e atroce. Gilgamesh scopre così per la prima volta il dolore per la perdita di un caro amico, e la sua tristezza è tanta. Decide dunque di intraprendere un viaggio alla ricerca del senso della vita. E'inoltre deciso a scoprire il segreto dell'immortalità. Viene a sapere che c'è un solo uomo che conosce questo segreto: il suo nome è Ut-narpisthim, un uomo molto vecchio e saggio che scampò, grazie all'aiuto di un dio, dal diluvio universale, acquistando così l'immortalità. Egli vive isolato su un monte altissimo e, dato il grandissimo segreto che conosce, la sua casa è raggiungibile solo dopo aver superato molti ostacoli. Gilgamesh riesce a superarli tutti ed ad un tratto arriva in un bellissimo giardino (molto simile al paradiso terrestre biblico) dove una bella donna gli implora di fermarsi e non proseguire. Il valoroso re non cede alle richieste e sceglie di andare avanti, giungendo finalmente nel luogo dove vive Ut-narpisthim. Il vecchio però gli risponde che la morte è inevitabile per l'uomo e, prima o dopo, dovranno morire. Gilgamesh, ormai senza speranze, sta per andarsene quando Ut-narpisthim, impietosito, gli rivela che c'è un'unica possibilità per l'eterna giovinezza: è una pianta che si trova in fondo al mare. Gilgamesh parte subito alla ricerca del prezioso vegetale e, dopo averlo trovato, decide di riposarsi sulle rive di un ruscello. Al suo risveglio, scopre che la pianta tanto preziosa è stata mangiata da un serpente, che dopo averla mangiata ha cambiato pelle. Sconfitto, torna così ad Uruk, la sua città.

Nel finale il testo originale è ricco di lacune, dovute certamente alla mancanza di alcune tavolette, andate ormai perdute.

Altro episodio, del quale però non si capisce la giusta collocazione all'interno del poema, è il seguente:

Gilgamesh prega il dio degli inferi di fargli rivedere Enkidu per un'ultima volta. Il desiderio viene esaudito e l'anima di quest'ultimo si presenta a Gilgamesh. Enkidu rivela al suo grande amico che la vita nell'oltretomba è triste e cupa, piena di rimpianti per tutto ciò che non si è fatto nella vita terrena e per le occasioni che si sono perse. Gli consiglia inoltre di lasciare stare in pace i morti e di godersi la vita finché ciò è possibile, dato che nell'oltretomba l'esistenza sarà piatta e senza felicità.

Su youtube

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